Alcuni stralci dell’intervista uscita oggi su Agenzia di stampa DIRE: grazie per avermi dato l’opportunità di parlare di quello che si prova quando si è in emergenza sanitaria, sempre.
“Tra i mille volti dell’emergenza coronavirus ce n’e’ uno, forse il più odioso, che colpisce chi già vive situazioni di vulnerabilità. Ha il volto delle dolore e delle nuove preoccupazioni delle persone già affette da patologie gravi, costrette a fare accertamenti importanti in ospedale senza percorsi differenziati o, addirittura, a rimandarli per paura del contagio.“
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“E l’idea di differenziare i percorsi in tutti gli ospedali torna anche nelle parole di Alessia Tuzio, social media manager e copywriter a partita Iva di 33 anni, una risata che illumina anche una conversazione telefonica nonostante una leucemia linfatica acuta diagnosticata a 14 anni e superata a 17, e un papa’ lontano, ammalato di leucemia linfatica cronica da quattro anni. “Sta facendo una terapia di chemio biologica con un nuovo farmaco sperimentale in pasticche, che sta dando ottimi risultati- racconta Alessia alla Dire- Deve fare l’emocromo una volta al mese tassativamente per vedere l’andamento della terapia e per regolare quelle coadiuvanti, con antivirali e cortisonici, e deve fare periodiche visite al policlinico di Tor Vergata, perché è stato operato da poco e non sono rinviabili”.
Per la giovane social media manager, romana d’adozione, “ci vorrebbe un’agenda di appuntamenti pensata ad hoc per le persone che devono per forza recarsi in ospedale e sono in emergenza tutto l’anno, tutti i giorni della loro vita, cercando di mantenere la normalità della loro routine medica”. E ancora “dovrebbe essere adottata in via ufficiale una prassi comune, un iter da seguire per tutte le strutture che hanno necessità di continuare a mantenere il flusso di pazienti”.
Sono 15 le pasticche che ogni giorno il papa’ di Alessia deve inghiottire, in base a una tabella di marcia che dalle 8 della mattina arriva alle 20 di sera, passando per le 11, le 12 e le 17. “Ci sarebbe bisogno anche di dispositivi di sicurezza gratuiti, perché mio padre la mascherina non la deve portare solo in questa emergenza, ma sempre. Lui nasconde molto bene quello che prova- racconta ancora Alessia- sicuramente e’ stanco della trafila che sta affrontando e ha il timore che questa situazione possa durare un periodo indefinito. Quanto allo stare a casa, lui già usciva poco prima, ora non esce praticamente più. Quanto a me – confessa – se ci penso ho il magone, perché quando hai paura per le persone che ami e’ difficile sopravvivere a livello psicologico e ci sono giorni che vorresti stare solo con la testa sotto le coperte, aspettando che passi”.
Neanche Alessia esce: “La spesa va a farla il mio compagno”, perché “bisogna avere delle accortezze”, aggiunge mentre racconta delle necrosi avascolari che a dieci anni dalla guarigione l’hanno portata a dover frequentare ancora altre camere operatorie, per due interventi: uno di protesi all’anca sinistra, l’altro all’anca destra, per salvarla. Alessia, nonostante tutto, e’ fiduciosa e grata: “Gli ospedali italiani stanno facendo ciò che é in loro potere fare e di questo devo solo rendere grazie. Perché se mio papà é ancora vivo e io sto parlando ora con te al telefono – sottolinea – è perché c’é un Servizio Sanitario Nazionale che c’é e lavora. Io e mio padre ci siamo curati solo nel pubblico, i casi di malasanità sono una goccia in un oceano di bene. La realtà dei fatti é che se non ci fosse un sistema che mi garantisse le giuste cure pagando un ticket irrisorio starei come in America, destinata a rimanere zoppa a vita o orfana di padre a 30 anni, che invece sta andando avanti con una terapia che costa quasi 10mila euro al mese, interamente coperti dal SSN. E allora ricordiamoci dei medici. Ma ricordiamocene tutti i giorni”.
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